Le Combinazioni di Giuseppe Abbati
Testo di Francesco Oppi del 2014 (Catalogo “Dentro inverart”)

Nella ricerca di Giuseppe Abbati è dominante la curiosità verso gli stili e le correnti del ‘900.
Della prima parte del secolo corto intravvediamo soprattutto un’anima dadaista espressa nel solco di Grosz e Johannes Baader o, di più, di Hannah Hoch (a parte gli evidenti omaggi a Duchamp). Vediamo emergere così l’attrito dell’artista sulla realtà del nostro ultimo ventennio nella scomposizione, nel taglio, che diventano il già ampiamente evocato all’inizio del ‘900 (dopo guerre e crisi sociali che ci appaiono chiaramente corsi e ricorsi), “atto eretico” e fondamentalmente liberatorio, attraverso il riassemblaggio di matrice concettuale dadaista.
A livello formale troviamo in queste “combinazioni” tutto il lavoro di studio e ricerca che l’artista ha rivolto, particolarmente, ad alcuni dei grandi artisti attivi nella ricomposizione estetica a mezzo del collage; si vedano ad esempio, oltre ai già citati, gli statunitensi Rauschenberg ed Eugene Martin, per i rapporti tra materia e colore; il britannico Richard Hamilton, non per l’appioppato “pop”, ma per l’organizzazione spaziale e le inquadrature (“Interior” e “Interior II” del 1964-5 ne sono valida testimonianza); l’europeissimo Jiri Kolar, per la scientificità dell’approccio alla realizzazione dell’opera, per alcuni aspetti tecnici (tra cui sagomature e riempimenti) e per la meditata enfasi dedicata ai “vuoti” e ai “pieni”; il Bruno Munari di alcuni collages (tipo “Ci ponemmo dunque in cerca di una femmina d’areoplano” del 1930) e per l’onirica ibridazione tra oggetti, e tra oggetti e figure.
Il lavoro di Abbati scaturisce anche da una inevitabile e quasi genetica (è nato nel 1973) introiezione della “tempesta grafica” che va, in varie forme e su vari supporti e media, prima dal 1966 al 1975 e poi fino al 1987.
Alle radici di questa serie di lavori rinveniamo anche un senso di monumentalità ricollocato, a volte in contraddizione con il concetto dada. Abbati, infatti, crea soggetti totemici che “involontariamente” si piazzano, spesso addirittura iconicamente, al centro della scena.
Come e più di altri artisti, Abbati è un avido divoratore ed elaboratore di immagini; di stimoli accarezzati dove altri non trovano. Utilizza, poi, una brillante fantasia, supportata dalla serietà nella ricerca formale, per progettare e costruire, a partire da queste “visioni”, nuove realtà possibili. Queste sue opere ci segnalano vie d’uscita inaspettate e fantastiche.
Le “combinazioni” ci danno impressioni di nuovi spazi, di tenerezze inconcepibili (ad esempio, tra una zampa di cavallo ed una serie di lavandini come nella composizione “Y” o tra un ramo spoglio forse di Lagestroemia e una ruota di bicicletta come nella “N”); ironie profonde.
Prospettive, in entrata e in uscita, sempre in connessione e sempre libere. In tutte le porte, nelle finestre, negli stessi muri, negli specchi e nelle ante d’armadio (come quinte di scena) vi sono segnali, aperture, dialoghi evocati tra forma e cromia.
Entrare in quegli spazi. Questo è il desiderio a cui ci accompagna l’artista con questa serie di ventisei “ambienti”; o almeno a poterli vedere in 3D; stargli innanzi e respirare aria nuova.
L’indice alfabetico che accompagna le opere, è un codice compositivo che, anche se non del tutto decifrato o decifrabile, ha un suono armonico e una propria poesia.

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